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Tag: licenziamento

licenziamento per molestie sessuali

Il lavoratore qualora provveda ad effettuare allusioni a sfondo sessuale nei confronti di una collega sul posto di lavoro può subire un licenziamento per molestie sessuali.

Le allusioni del lavoratore a sfondo sessuale nei confronti di una collega sul posto di lavoro, legittimano il licenziamento del medesimo per giusta causa. Le molestie sessuali sul posto di lavoro sono quindi giusta causa di licenziamento.

Ed infatti, le continue allusioni verbali e fisiche nonché i persistenti riferimenti alla sfera sessuale del/della collega a cui ci si rivolge costituiscono una giusta causa di licenziamento per molestie sessuali.

A nulla rileva che sia assente la volontà offensiva da parte del lavoratore che rivolge tali espressioni moleste o che in generale il clima dei rapporti tra tutti i colleghi sia spesso scherzoso e goliardico.

Sotto quest’ultimo profilo, si ricorda la definizione di molestie così come come indicata dall’art. 26 del D.Lgs. n. n. 198/2006 la quale li articola come : “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo“.

ll carattere indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale, risulta integrativo del concetto e della nozione di molestia, essendo questa e la conseguente tutela accordata, fondata sulla oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto, con assenza di rilievo della effettiva volontà di recare una offesa.

Ad ogni modo, la corretta sussunzione dei fatti accertati attraverso le prove acquisite (come l’esclusione dii testi escussi hanno che possano avvalorare le allusioni verbali e gestuali a sfondo sessuale) nella nozione legale di molestie sopra indicata, costituisce una regolare attività valutativa del giudice di merito.

Malattia – il lavoratore può svolgere altre attività

Il lavoratore in malattia può svolgere un’altra attività?

Nel nostro ordinamento non sussiste un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, durante le assenze dal lavoro per malattia.

Ed infatti, lo svolgimento di altra attività non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore e quindi automatica giusta causa di licenziamento.

Cosa deve provare il datore di lavoro per irrogare il licenziamento?

Il datore di lavoro per irrogare il licenziamento deve valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta da parte del lavorare.

Il datore di lavoro deve inoltre provare non solo che si tratta di effettiva attività ricreativa o ludica ma anche che la malattia è fittizia ovvero che la condotta tenuta dal dipendente è potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il suo rientro al lavoro.

Quanto sopra è ribadito da una recente sentenza della Cassazione del 26.4.2022 che ribadisce che non esiste incompatibilità assoluta tra malattia e svolgimento di un’ altra attività lavorativa durante il periodo di comporto.

Per la Cassazione il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attivita’, quale in ipotesi un’attività’ ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona.

Esempi:

Così non può essere licenziato un lavoratore che, in malattia, si reca allo stadio per vedere una partita di calcio (tanto più se i biglietti li aveva acquistati prima dello stato di malattia).

Anzi, la durata di una partita si estende per un arco temporale ben più breve rispetto alla giornata lavorativa e non richiede particolari sforzi.

Inoltre, non esiste un obbligo di riposo assoluto in pendenza di malattia se non oggetto di prescrizione medica e fuori dagli orari di reperibilità per la visita fiscale.

Si esplica infatti “il diritto di libera circolazione assicurato a ogni cittadino che non sia destinatario di provvedimenti restrittivi promananti dall’autorità giudiziaria”.

Sul punto, si è pronunciata in tal senso anche una recente sentenza del Tribunale di Arezzo del 7.3.2023.